Welfare

Dietro le sbarre. L’educatore questo sconosciuto

Sono coloro che dovrebbero accompagnare i detenuti nel reinserimento sociale. Ma oggi sono talmente pochi, che sono costretti a fare intrattenimento.

di Ornella Favero

«Il numero delle figure specializzate oggi in servizio è talmente esiguo rispetto alle effettive necessità, che ci fa guardare all?educatore come a un panda, una specie da proteggere»: a ritenere che gli educatori siano ormai una specie in via di estinzione è Alessandro Margara, uno dei padri di quella riforma penitenziaria che nel 1975 introdusse questa nuova figura.
I primi educatori in carne ed ossa entrarono però in servizio nel 1979, guardati con sospetto dai detenuti e caricati del compito improbo di ?rieducare? persone di 30, 40, 50 anni, che andavano prima «osservate scientificamente» e poi «trattate» in vista di un reinserimento nella società. A distanza di tre decenni, viene voglia non di fare bilanci, di fatto impossibili perché se si pensa che il rapporto educatori-detenuti è di uno a cento, non si può pretendere quasi nulla, ma di vedere se sono ancora adeguati i compiti degli educatori di fronte agli enormi cambiamenti che si sono verificati nella composizione della popolazione detenuta.
Già fa pensare il fatto che oggi la vita di una persona detenuta sia appesa al filo sottile della ?sintesi?, che è il documento nel quale «vengono tracciate le linee essenziali del programma di intervento rieducativo», stilato da una équipe che ha al centro gli educatori: nove mesi dovrebbero bastare per ?partorire? questo documento, che è in molti casi anche una specie di ?lasciapassare? per avviare un percorso con i primi permessi, i primi passi della scalata alla libertà, e invece i tempi di attesa sono molto più lunghi, e più pesante la sofferenza di chi aspetta ansiosamente quel pezzo di carta per poter finalmente cominciare a respirare un po? di aria libera. La prima considerazione che voglio fare è allora che è lodevole la presa di posizione dei magistrati di sorveglianza di Padova, secondo la quale i detenuti non possono pagare anche per la mancanza di personale, e quindi loro prendono in considerazione la possibilità di concedere permessi anche se non c?è ancora la ?sintesi?.
Il secondo spunto che si potrebbe dare a una discussione sul ruolo e i compiti degli educatori è che il colloquio individuale tra educatore e detenuto, visti anche i numeri del sovraffollamento, è uno strumento del tutto inadeguato, così come pare inadeguato il concetto di rieducazione (è già un po? meglio, per esempio, risocializzazione) che ha bisogno di contenuti nuovi, che puntino meno a entrare nelle coscienze della gente per rieducare e di più a proporre percorsi di crescita anche culturale, che non siano semplici ?riempitivi? del tempo vuoto del carcere.
L?ultima circolare sulle ?Aree educative? del Dipartimento dell?amministrazione penitenziaria parla non a caso di presenza nelle carceri di attività che spesso «assumono il senso di un intrattenimento» più che puntare alla «adesione consapevole e responsabile del condannato» a un programma di risocializzazione. E qui entrano in campo anche il volontariato e il non profit, che dovrebbero impegnarsi di meno su interventi ?spot? di intrattenimento che durano il tempo di un finanziamento o su un supporto ?assistenziale? alle persone detenute, e investire invece di più su attività che coinvolgano i detenuti, li impegnino ad assumersi delle responsabilità e a prendersi in mano, in qualche modo, il proprio destino.
Il richiamo alla responsabilizzazione delle persone detenute, fatto nella circolare citata, è importante anche perché dovrebbe mettere in guardia da quello che è un rischio sempre presente nelle carceri: la deresponsabilizzazione, l?infantilizzazione delle persone, il vizio delle punizioni collettive, della politica del «puniscine cento per non rieducarne nessuno», come l?ha saggiamente definita un detenuto.
Da ultimo, bisogna sottolineare che oggi il disagio psichico è sempre più presente negli istituti, e richiede forse che gli operatori penitenziari, primi fra tutti gli educatori, ma anche i volontari ripensino alla propria presenza in carcere e si diano degli strumenti più adeguati per far fronte al fatto che oggi viviamo in una società che il disagio, e tanto più quello mentale, non lo vuole vedere, e preferisce spesso cacciarlo in galera.

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